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una conversazione con Gianni Bertini, Nansola 28 giugno 2010
di Federico Sardella

 

Incontro Gianni Bertini nella sua casa/studio sopra a Sestri Levante. Sono con Luca Cavana, gallerista e nuovo amico che da qualche tempo sta raccogliendo dei lavori dell’artista per dedicargli una esposizione, prevalentemente con opere risalenti agli anni del MAC ed a quelli informali della sua attività, oltre ad una serie di piccoli pezzi e progetti degli anni Settanta.

Abbiamo spostato più volte la data del nostro appuntamento. Gianni Bertini non sta bene di salute. Sembra che stia al meglio ma in realtà sta molto male. Ci spiega che deve fare trasfusioni continuamente e che questo non gli permette di considerarsi un uomo sano.

Bertini ci accoglie in un edificio curioso. Sembra che gli ambienti che lo compongono li abbia costruiti lui stesso, addossandoli gli uni agli altri e gli uni sopra gli altri. Stanzine funzionali, una per l’archivio, una a mo’ di magazzino, un’altra come fosse uno studiolo per la lettura… ed un gran locale per ricevere: lo stanzone dove si svolge la nostra chiacchierata, risultata essere poi, a tutti gli effetti, un monologo con spettatori.

Un pappagallo di peluche al centro del soffitto è immobile sul suo trampolino, un pianoforte stanco, che probabilmente non viene sfiorato da anni, un bancone da bar con sgabelli, un quadro cinese, di quelli con la cascata con l’acqua che scorre incessantemente, qualche oggetto liberty, un caminetto, due poltroncine da boudoir sulle quali ci accomodiamo. Appoggio il registratore su un tavolino rivestito di specchietti, osservo una serie di tele con la faccia al muro e lascio che Bertini racconti ciò che preferisce, senza interromperlo… facendolo solo di tanto in tanto per arginare la complessità del suo pensiero ed il flusso di ricordi che è ben abituato a condividere.

Ha ottantotto anni, fascino ed esperienza. Da qualche tempo non lavora più e la cosa mi ha molto colpito, visto che è un artista che ha dedicato oltre cinquanta anni della sua vita alla pittura, con numerose virate ma senza mai interruzioni. Questa scelta mi sembra sintomo di grande maturità e di estrema consapevolezza di sé, dei propri mezzi e del proprio procedere.

Luca gli mostra le opere che intende esporre nella mostra a lui dedicata nella galleria di La Spezia, conversiamo per qualche ora, lo ascoltiamo pazientemente, avvolti dall’esuberanza di Bertini che saprà azzittirci e stregarci con le sue parole: un fiume in piena, un flusso di coscienza garbato ed inarrestabile.

Esordisce affermando che è inutile che io registri quanto lui dirà, perché tanto la sua voce non “prende”, non riesce ad essere catturata da registratori o da altri aggeggi del genere. Il mio mini disc, invece, non soltanto tratterrà gelosamente ogni parola che ci scambiamo, ma mi restituirà, ora che lo riascolto, un Bertini energico e desideroso di raccontare l’oggi tanto quanto il passato, con un filo di voce, appena percepibile ma tagliente, a tratti smorzata dalla fatica, dalla vecchiaia e dalla malattia che nasconde come solo certi uomini sanno fare; una voce desiderosa di farsi sentire e certa di avere qualche cosa da dire, da lasciare... Pochi giorni dopo Gianni Bertini morirà nella sua casa a Caén, in Normandia.

 

Rispetto a quando muovevo i primi passi, rispetto agli anni in cui esponevo nelle allora più prestigiose gallerie, la situazione è veramente cambiata. Totalmente cambiata. Oggi si parla di mondializzazione, a tutti i livelli. Se anni fa la squadra di calcio tedesca era formata esclusivamente da giocatori “ariani”, oggi è costituita per la metà da algerini o turchi… sapete, questa mondializzazione si trova anche nella pittura.

L’opera d’arte non esiste più. Nemmeno il monumento ha più motivo di esserci. Può essere sostituito facilmente da un pezzo del muro di Berlino, non è così, forse?

Mi sento molto più vicino agli impressionisti che ai pittori delle ultime generazioni. E non mi sento più di appartenere ad un ambiente, che, se vogliamo, possiamo definire come sistema dell’arte.

Non mi va giù di essere accostato ad un cinese o ad un africano. Non è per questioni di razzismo, no! É per una questione di formazione. Siamo diversi. Abbiamo radici, esperienze e scopi differenti.

Chi dice che i pop artisti sono stati dei cattivi pittori si sbaglia. Erano dei buoni pittori ed hanno avuto il successo che meritavano. Non dimentichiamoci però che quando Robert Rauschenberg vinse il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1964 i suoi quadri arrivarono dagli Stati Uniti con l’aereo dell’esercito americano… e la CIA dietro. Ebbero un sostegno enorme, e di conseguenza arrivò il grande consenso. Questo sostegno è mancato a gruppi come il Nouveau Réalisme o la Mec-art.

I pop artisti americani sono molto distanti l’uno dall’altro. Tra Rauschenberg ed un altro non c’è legame in fondo, ancor meno fra gli artisti del Nouveau Réalisme. Niki de Saint Phalle e Jean Tinguely, anche se vivevano assieme, anche se erano sposati, sono molto diversi, completamente diversi… fra Yves Klein e gli affichistes non c’è alcun punto di contatto.

In realtà, i veri nouveau realistes avrebbero dovuto essere esclusivamente gli affichistes: coloro che prendevano ciò che si trovava per la strada, dove la gente ci ha sputato, dove ci ha piovuto o ci ha pisciato il cane. Questo doveva essere il Nouveau Réalisme, ma questi artisti tiravano di meno…

La pop art, la Mec-art, il Nouveau Réalisme… ormai è tutta gente passata.

Yves Klein era un grandissimo artista. Aveva una sua certa filosofia: quella del blu... Ma non tutti sanno che questa filosofia l’ha inventata sua madre Marie Raymond. Una sera ad un café eravamo Yves, Marie, Pierre ed io ed ad un certo punto questa donna intelligentissima gli disse: vedi Yves, tu dovresti smetterla di usare molti colori. I quadri o li fai tutti rossi, o tutti gialli o li fai tutti blu… Sua madre era un’ottima pittrice, esponeva da Denise René, e con questa boutade ha, probabilmente, portato il figlio a trovare la propria ragione; lo ha portato a scoprire e svelare l’immateriale. Il fatto del blu, sconvolse tutti…

Spesso mi domandano chi abbia fatto i primi decollages, se Mimmo Rotella o Jaques Villeglé… o altri. Io la domanda la porrei in questo modo, alla rovescia: chi ha smesso per primo? É stato interessante cominciare, ma continuare oggi con la lacerazione dei manifesti, non so... Se vuoi un manifesto lacerato, vai e te lo strappi per la strada… Il primo degli affichistes è stato Raymond Hains, ed è stato anche il primo a chiudere con questa pratica per dirigersi altrove, interrompendola in modo eloquente, lacerando i manifesti di una Biennale… gli altri hanno continuato tranquilli…

Alla fine degli anni Cinquanta ero considerato tra i migliori pittori informali. Ma per fortuna, ho smesso di fare quel tipo di pittura che, nel mio caso specifico, non necessitava successiva pratica. Ciò che caratterizzava le mie opere era la diagonale, o l’incontro di più diagonali. Nel senso che questa era la struttura e l’impostazione di fondo che davo alle opere, mosse, appunto, dalla diagonale, che va ad imprimere un sentimento di velocità al quadro. Anche nei miei lavori degli anni della Mec-art si ritrova questo stesso andamento, se si è in grado di leggerlo…

Altrettanto spesso mi domandano perché non abbia aderito al Nouveau Réalisme o perché non sia stato invitato a farlo. La risposta è semplicissima: al momento della sua fondazione io ero già troppo noto.

Conobbi Pierre Restany che ancora non faceva il critico d’arte. Era impiegato al ministero, ma voleva fare il critico. Così, un giorno a Parigi, gli dissi che una rivista di Torino mi aveva invitato a proporre dei giovani perché vi intervenissero con recensioni od articoli. E da allora si avvia per Restany un rapporto con l’Italia che mai si interromperà. Quando lo incontrai era un ragazzetto che parlava un italiano con uno smaccato accento del sud, il che mi diede da pensare, anche se non mi ha mai chiarito la faccenda del suo accento, accento che poi negli anni ha perso, che abbia avuto una tata meridionale…

L’Italia per lui era un po’ una seconda patria, credo sia stato molto amato ed apprezzato in Italia, diversamente da quanto gli è accaduto in Francia: era uno che dava noia agli altri, perché era polemico, a volte irruente… Ma era uno che faceva il critico, professione oggi completamente dimenticata.

Per me un critico è uno che mette in dubbio ciò che è stato e ciò che vede, sempre. La critica si basa sul dubbio, mai sulle verità. Quello che viaggia con la verità in tasca non è un critico.

Si lavora e si comunica con il computer, si discute raramente, non esistono più i café e c’è una impressionante quantità di riviste che si vorrebbero occupare di arte. A Parigi, in Saint Germain des Prés, d’inverno, quando faceva molto freddo, spesso si andava in una libreria che era proprio in mezzo tra il Café de Flore ed il Café Zivago. Lì c’era un bancone dove si potevano consultare le riviste, senza bisogno di comprarle. Una delle ultime volte che ci sono stato, sul banco ci saranno state trecento riviste, o forse erano tremila. In una di queste, sicuramente, avrei potuto trovarci un articolo interessante… ma come consultarle tutte? E di conseguenza, mi sono chiuso anche alla stampa. Ho da tempo rinunciato alla consultazione delle riviste.

Certe volte mi chiedo: se dovessimo mandare su un altro pianeta una immagine che rappresenti la Terra, la nostra cultura e la nostra civiltà, che cosa potremmo inviare? Un salame, o un prosciutto forse? Certo, gli puoi mandare l’immagine di un quadro, ma che cosa? Un Raffaello? Ma chi è questo Raffaello, si domanderanno. Come lo leggeranno e che senso potranno dare alle sue pennellate, ci domandiamo noi, trovandoci ad avere a che fare con una realtà che adotterà un sistema di lettura diverso dal nostro. Purtroppo questo potrebbe succedere, ed anche in fretta.

L’importante per me, l’importante in qualunque tempo, è avere un muro da abbattere, una barriera da superare o un ostacolo da scavalcare. Ai miei tempi, sia i pittori americani che quelli europei sono passati dall’informale, che ad un certo momento è diventato talmente imperante, di maniera sino ed essere considerato un limite. Se non c’è più una barriera da superare diventa difficile la lotta, diventa impossibile andare avanti. Oggi forse non ci sono più barriere.

Io sono un artista che ha una carriera, ed uno che ha una carriera non passa tutta la vita a ripetere, anche bene alle volte, lo stesso quadro come tanti hanno fatto. Ci sono pittori che dalla fine degli anni Cinquanta non si sono più spostati, e forse questa è una caratteristica, ed al tempo stesso un limite, della pittura italiana… la maggior parte della pittura italiana non la considero, e non la considerano nemmeno oltre le nostre dogane. Artisti che in Italia costano moltissimo se li porti a Chiasso poi non li vendi.

Io ho strascicato i fondelli dei pantaloni in tutto il Mondo. Ho lavorato e vissuto in Svezia, in Oriente, negli Stati Uniti ed in Sud America… Oggi ho uno studio a Parigi, questo qui a Nansola, a Milano ho solo l’abitazione, lo studio l’ho lasciato alcuni anni fa.

Volete sapere qual è il luogo in cui oggi mi trovo più a mio agio nel lavoro? Io non lavoro più… da quando, naturalmente, mi sono accorto che non ce la faccio più a lavorare, che non ho più nulla da dire. Se ne ho voglia faccio dei bozzetti o scrivo, ma piuttosto che mostrare aria fritta non propongo nulla. Io ho lavorato moltissimo per tutta la vita, fino a ieri. Ho sempre vissuto facendo il pittore, lavorando tutti i giorni, senza interruzioni, lavorando troppo, forse. Del resto un pittore fa il pittore, deve farlo; ed è già troppo…

 

Le chiedo, Signor Bertini, se ha deciso di smettere di lavorare anche perché, come mi ha detto poco fa, non vi sono più barriere da abbattere?

Oggi la barriera sono io… A proposito, quali sono le domande che hai preparato per me?

 

( in L'ultima barriera, Bandecchi &Vivaldi, 2010 - catalogo della mostra presso Cavana arte contemporanea, La Spezia)