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da "L'Unità" - sabato 10 luglio 2010

di Renato Barilli

Il francese Pierre Restany è stato forse il critico più incisivo che l'Europa abbia potuto vantare, tra anni 50 e 60, capace di sfidare l'incipiente supremazia degli Usa affidata alla coppia Rauschenberg-Johns, col loro New Dada, cui Restany si oppose, di qua dell'Atlantico, l'equipollente Nouveau Réalisme, forte dei bei nomi francesi come César e Arman, ma anche del nostro Mimmo Rotella. Nell'un caso e nell'altro si trattava di andare a prendere brandelli della nuova realtà legata all'industrialismo e al trionfo della merce, agitandoli come in uno shaker e servendone miscele generose e abbondanti. Forte di quel successo competitivo, Restany provò anche dopo, nei primi anni 60, a reggere la sfida rispetto alla Pop con cui gli Usa andavano imponendo sempre più il loro predominio, e nacque così la Mec art. Ora invece che prendere a pezzi le nuove realtà industriali, conveniva coltivarle con ossequio e devozione. L'unico ad accettare la proposta fu Rotella, che la smise di sbrindellare i manifesti lasciandone intatte le immagini. Sopraggiunse però a rinforzare quella soluzione Gianni Bertini, pronto a prendere la Mec art alla lettera, ovvero nelle sue opere vediamo proprio pesanti meccanismi, ganasce, morse, tenaglie, in un cupo bianco e nero fotografico, che afferrano come dolci prede sia celebri dive hollywoodiane, sia lontane divinità dell'Olimpia, ma con l'evidente intento di profanarle. Purtroppo il maestro pisano è scomparso ieri all'età di 88 anni. Indebolito da una grave malattia, aveva deciso di trasferirsi in Normandia per recuperare le proprie forze.

Precursori del '68
Poi, all'insegna di questa medesima etichetta, è venuta una squadra di artisti più giovani, con salto generazionale, i quali in sostanza hanno anticipato la cosiddetta "morte dell'arte" proclamata  dalle poetiche attorno al '68, con l'obbligo connesso di assumere appunto il bianco e nero fotografico come strumento privilegiato. Tra queste nuove reclute, accomunate nell'omaggio a Bertini, forse il solo Elio Mariani (1943) ne è stato un allievo fedele, gli altri due qui presenti, Bruno Di Bello (1938) e Aldo Tagliaferro (1936) avrebbero da rimetterci a venir congelati entro la Mec art, quando anzi hanno anticipato tecniche poi riprese e potenziate dalle cosiddette arti del processo, o del concetto, o del corpo e simili. Di Bello si è specializzato nell'andare a scomporre le icone, non soltanto della cronaca quotidiana, ma anche e soprattutto di un sacro pantheon riservato ai grandi del nostro tempo, come Freud o Klee, ne ha ricavato brillanti effetti di frantumazione, come agitare un caleidoscopio e compiacersi nell'offrirne le combinazioni multiple e cangianti, oppure il medesimo gioco è stato da lui applicato alle lettere, prese anch'esse a frammenti, a mozziconi. Tagliaferro ci ha dato lunghe strisciate in cui gli eventi si moltiplicano, danno l'assalto al tempo, tentano di dotarsi anche di una dimensione di racconto, col che egli ha pure anticipato quella tendenza, tipica degli anni Settanta, che si sarebbe chiamata Narrative Art.