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La Mec-Art
La Mec - art e i suoi protagonisti
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2° MANIFESTO DELLA MEC-ART

Pierre Restany, ottobre 1965

La vita artistica contemporanea è dominata da un fatto capitale: ormai tutti, ad un livello o l'altro, prendiamo coscienza della natura moderna industriale ed urbana. Questo orientamento domina l'evoluzione attuale. Le ricerche si sviluppano su due vie parallele, secondo che il tentativo di sintesi è situato al livello dell'oggetto in sé stesso o della constatazione di questo oggetto sul piano della bidimensionalità classica.
Se l'arte de “l'assemblage” corrisponde ad una messa in scena della natura moderna, l'arte del “constato” propone una impaginazione della stessa realtà oggettiva. A dire il vero non c'è una differenza morale o filosofica tra queste due proposizioni che traducono lo stesso “constato” realistico. Per contro, questi riporti fotografici, questi ingrandimenti di belinogrammi, queste tirature dirette o decalcomanie di clichés, queste inquadrature tipografiche, queste impressioni a grande tiratura su tela sono molto lontane dalla vecchia pittura figurativa che tenta oggi di nascondere la sua mediocrità con un modernismo del soggetto.
La crisi attuale della pittura da cavalletto è legata a quella dell'immagine “dipinta”: ma l'immagine dipinta, non ha niente a che vedere con l'immagine oggettiva ottenuta sulla tela attraverso un cliché, un'impronta, un riporto fotografico, val a dire un processo di impressione meccanica. Questa differenza capitale, che può sembrare una sottigliezza a prima vista, si è manifestata di più nel corso della stagione 1965. Nella storia dell'iconografia contemporanea, questo marca la frontiera esatta tra l'esperimento autentico ed i tentativi di un camuffaggio opportunistico.
Ciò che è in gioco è importante. Di fronte a questo problema, l'ultimo tanfo della disputa astrazione-figurazione è destinato ad un comprensibile oblio.

 


 

 

LA MEC-ART: UNA PITTURA MECCANICA

ALLA RICERCA D'UNA ICONOGRAFIA

MODERNA

Pierre Restany, novembre 1967

 

in “Essere” n.4 quaderno di studi e documenti d'arte contemporanea

Dopo la sua invenzione per opera di Nicéphore Niepce, la fotografia ha allacciato dei rapporti sempre più pregnanti con la pittura. In un primo “tempo figurativo”, l'istantanea fotografica ha annullato tutta una certa arte di genere aneddotico e di ritratto. In seguito le immagini si sono fuse e si sono avute numerose interpolazioni, tanto che, si è potuto parlare di realismo fotografico per indicare una certa esattezza di immagine: la precisione minuziosa del dettaglio nella pittura di cavalletto. In un secondo tempo poi pià recente, ci si è accorti che la fotografia scientifica permetteva di isolare dalla realtà le immagini “non figurative” inventate dai pittori astratti. Una rivista tedesca “Das Kunstwerk” ha dedicato un numero speciale a questo incontro fra dati oggettivi dell'osservazione fotografica e la visione “astratta” del pitt1965_gripore.
Questo incontro, d'altronde, si è posto ben oltre i fenomeni superficiali della visione ad occhio nudo: vecchi muri, campi visti dall'aeroplano, effetti di materia e di luce. Le negative dovute al microscopio elettronico ci hanno rivelato una struttura segreta della materia che contiene l'insieme dei principi informali e tachisti: un frammento di roccia vulcanica attraversata dalla luce polarizzata diventa così un Sam Francis, un pezzo di corteccia cerebrale ingrandita 30.000 volte ricorda il dripping di Pollock, i gangli nervosi esprimono pienamente la calligrafia di Mathieu. I nudi di Fautrier rappresentano la struttura fibrosa di un interno uterino. La scoperta di questa super realtà ha reso vane tutte le speculazioni e tutte le polemiche astratto-figurative, e ha contribuito potentemente alla rimessa in questione dei valori astratti. Ma il problema delle influenze reciproche nella fotografia e nella pittura si situava sempre a livello dell'immagine tecnica o del repertorio visivo. Soltanto nella scoperta quotidiana di “altre visioni” il fotografo assume la funzione di leader.

New York: la rivincita della pittura sulla fotografia
Questa supremazia del fotografo non avviene che a partire dal 1961 quando il rapporto fotografia-pittura sta per essere invertito con l'introduzione nell'ambito della pittura di procedimenti di stampa industriale e di riproduzione meccanica a fini direttamente creativi. Il procedimento del riporto fotografico in serigrafia era del resto già utilizzato dai disegnatori industriali e dai grafici. Esso consiste nel riportare l'immagine fotografica (non importa quale immagine) su un telaio di seta e nell'imprimere questo cliché, dopo averlo inchiostrato, su un foglio di carta o di tela. Un ex disegnatore pubblicitario newyorkese Andy Warhol decise di utilizzare il sistema del riporto serigrafico nella sua pittura ai fini di ottenere, con l'esclusione di tutte le interpolazioni soggettive e manuali, una immagine-oggetto che fosse suscettibile di differenti combinazioni: ingrandimento, ripetizione, moltiplicazione, serialità, ecc.
Le scatole di Campell soup di Andy Warhol esposte nel 1962 a Los Angeles (Ferus Gallery) e in seguito a New York (Stable) lo resero celebre da un giorno all'altro. A ciò fece seguito la famosa serie di Marilyn Monroe e poi quella sul tema sociologico della morte, i reportages d'incidenti, le sommosse, la sedia elettrica.
Contemporaneamente nel 1962, Rauschenberg che, dieci anni prima nei suoi disegni aveva adottato la tecnica ernestiana del frottage fotografico, riprese il procedimento del riporto a suo vantaggio e lo utilizzò in una serie di tele che si iscrissero nella logica conseguenza del combine-painting.
I riporti fotografici permisero a Rauschenberg di rimpiazzare il collage del ready-made con l'immagine-oggetto tutto incorporato nello stesso contesto pittorico espressionista: in breve, di passare dall'assemblage ad una superficie mantenendo la molteplicità dell'immagine.
Il riporto fotografico corrisponde alla trasposizione su un piano bidimensionale del concetto di ready-made. Non c'è differenza filosofica tra una accumulazione di Arman e un riporto fotografico di Andy Warhol: nel primo caso abbiamo a che fare con oggetti trovati, nel secondo con immagini-oggetto trovate. Né Warhol né Rauschenberg si sono preoccupati di operare sulla struttura organica dell'immagine-oggetto. Essi considerarono il riporto come un tutto omogeneo, una quantità grezza di informazione oggettiva, un elemento di un collage integrato al piano.

La Mec-Art in Europa
Al contrario, le ricerche che si sono sviluppate tre o quattro anni più tardi in Europa tendono tutte alla ristrutturazione dell'immagine bidimensionale classica per mezzo di diversi procedimenti meccanici: (stereotipia) riporto diretto su tela emulsionata, analisi o riporti di retino, stampa a grande tiratura su tessuto o materia plastica.
La fotografia è utilizzata come un procedimento meccanico che permette di condizionare le strutture dell'immagine-oggetto: l'artista controlla ciascuna fase dell'elaborazione meccanica dell'immagine, egli si è appropriato della fotografia e l'ha puramente e semplicemente sostituita ai suoi pennelli e alla sua tavolozza. Dal 1947 Raymond Hains aveva perfettamente compreso questo problema particolare della strutturazione oggettiva dell'immagine, restando tuttavia sul piano della fotografia pura.
Meritatamente si deve parlare di pittura meccanica o di mec-art a proposito di un gruppo di opere di Béguier, Bertini, Pol Bury, Jacquet, Nikos e Rotella che avevo riunito nell'ottobre 1965 a Parigi sotto il titolo significativo di “omaggio a Nicéphore Niepce”. Tutte queste opere in effetti utilizzavano i procedimenti fotografici con lo stesso intento: l'elaborazione meccanica di una nuova immagine di sintesi. I loro autori avevano per la maggior parte dietro di loro una lunga carriera artistica e si erano fatti conoscere per altre posizioni di avanguardia. Essi erano arrivati là al termine di indirizzi molto diversi.
Nel settembre 1963 a Roma Mimmo Rotella mi mostrò i suoi primi “riporti”; essi si inserivano nella logica prospettiva dei suoi manifesti lacerati. In seno al Nuovo Realismo, Rotella aveva spinto fortemente in avanti la ricerca di una super immagine ready-made selezionando i manifesti dai quali gli strappi mettevano in risalto gli elementi formali precisi: stelle del cinema, oggetti o slogan pubblicitari. L'inseguimento di questa sottolineante espressività dell'immagine-oggetto lo condusse a porsi il problema dell'utilità del decollage oggettivo: perché lacerare il manifesto scelto e staccarlo dal muro? Il concetto di scelta è autosufficiente, una fotografia del manifesto gioca lo stesso ruolo oggettivo dello stesso manifesto. Nello scegliere i clichés dei suoi décollages Rotella opera una profonda indagine realistica. La constatazione della sua visione e se si vuole l'accostamento dell'accertamento dell'immagine-oggetto. Questa fu la partenza della seconda fase della sua carriera, suddivisa in diverse serie di operazioni dirette di negativi su tela emulsionata (fotografie di giornali, serie Vaticano II) che l'hanno condotto ai “macules” attuali.
Bertini che dal 1960 aveva integrato degli elementi tipografici e dei collages di giornali nelle sue pitture “machiniste” inaugura nel 1961 le “bertinisations” di bandiere e di documenti ufficiali. A partire dal 1963 realizzò dei collages-peintures complessi, pitture gestuali nel contesto delle quali il collage fotografico assumeva un ruolo sempre più importante. Nel 1964 decise di dare una nuova unità a questi montaggi composti, fotografandoli e riportando il cliché su tela. In questo caso la fotografia diventa un modo di condensazione e di unificazione dell'immagine: il cliché abolisce tutti gli effetti di contrasto, tutte le differenze di materia tra il collage e le parti dipinte.

Le ricerche di una nuova immagine
Questa enumerazione che non ha niente di definitivo sottolinea lo sviluppo durante questi ultimi anni di una corrente di ricerche omogenee tendenti ad una ristrutturazione dell'immagine piana: se si vuole parlare di “Nuova figurazione” oggi, è appunto a questo livello che bisogna collocarla. Poiché a differenza dei loro colleghi americani i mec-artisti non cercano di ottenere un ready-made piano, ma proprio di agire sulla struttura organica dell'immaginazione e sui dati fondamentali della visione. Nel devolversi del processo meccanico, queste ricerche sulla nuova immagine ci pongono un certo numero di problemi ancora mal risolti, ma che non possiamo eludere più a lungo: l'impiego di un procedimento di riproduzione a fini creativi, l'eliminazione di tutti gli elementi propriamente pittorici, infine e soprattutto la questione della produzione quantitativa. Queste opere possono essere facilmente ottenute in grande quantità, sia per la riproduzione dei clichés originali, sia per la stampa a grandi tirature di un negativo. I mec-artisti vogliono rispettare la finzione arbitraria dell'opera unica o orientarsi risolutamente verso la produzione in serie? La logica vorrebbe che la pittura meccanica, che impronta il suo linguaggio alle tecniche della comunicazione di massa si evolva naturalmente in questo senso. Questa evoluzione si inserisce in un fenomeno d'insieme, un'estetica collettiva che non fa che tradurre il crescente inserimento dell'arte nella realtà sociale. Sfortunatamente gli stessi artisti urtano non soltanto contro la reticenza del pubblico, ma anche contro i loro scrupoli psicologici, contro i loro vecchi pregiudizi. Al momento soltanto Alain Jacquet ha affrontato francamente la questione. Bury, Rotella e Neiman hanno continuato occasionalmente a fare tirature multiple. Bertini che ha messo a punto un procedimento di impressione su materia plastica è deciso a portare la sua produzione a livello veramente industriale.
La questione resta dunque aperta. Essa interessa uno dei settori più vivi dell'arte attuale. Dal successo di questa esperienza, dalla soluzione di questi problemi dipende il radicamento della coscienza realista moderna di una iconografia originale capace di allacciarsi alla tradizione senza rinunciare alla rivoluzione della visione che essa rappresenta. La posta è di tale tenore che merita di essere presa in considerazione.

 


 

 

LA MEC-ART E I SUOI PROTAGONISTI

di Francesco Tedeschi

 

estratti da Mec Art. Arte oltre la fine della pittura, a cura di V. W. Feierabend, Silvana Editoriale, Milano, 2010, pp. 54-99


DEFINIZIONE TERMINOLOGICA E CONFINI CRONOLOGICI


La Mec-Art (mechanical art, arte meccanica) è un fenomeno che non ha conosciuto una adeguata fortuna, se valutata in prospettiva storica, ma la sua presenza, nel panorama dell’arte internazionale degli anni Sessanta, è di estremo interesse per il grado di corrispondenza con il clima di quel periodo e di grande utilità nell’interpretare l’evolversi dei rapporti fra la sperimentazione artistica e l’elaborazione del linguaggio dei media negli anni di maggiore affermazione della società dell’immagine, o dello spettacolo, che qualifica una ben determinata fase della cultura contemporanea. Oltre che per il suo interesse sociologico e per la sua azione nella definizione dei rapporti fra le posizioni estetiche innescate dal confronto con le immagini dei mezzi di comunicazione di massa e con il successo della Pop Art, in particolare nella sua versione americana, si tratta di un momento di singolare importanza per la precisazione della poetica dei singoli autori che vi hanno preso parte a vario titolo, se valutata in rapporto con le origini di ciascuno di essi e con i loro sviluppi individuali successivi. L’aggregazione che va sotto questo nome ha una dimensione internazionale, che si configura inizialmente come espressione di una tendenza che fa la sua prima apparizione nell’ambito parigino, per trovare in Italia una sua stagione, definita da una serie di manifestazioni alle quali prendono parte autori come Mimmo Rotella, operante tra l’Italia e Parigi nel corso degli anni Sessanta, Gianni Bertini, che dagli anni Cinquanta ha eletto come suo primo luogo d’azione la capitale francese, Elio Mariani, Aldo Tagliaferro e Bruno Di Bello, attivi a Milano e che a partire dalla metà del decennio svolgono la loro direzione di ricerca per vie strettamente affini ai principi che vengono parallelamente definiti dalla critica francese, e da Pierre Restany in particolare. Altri autori, alcuni dei quali con una presenza nel panorama di quegli anni già riconosciuta per altre vie, come Mario Schifano o Luca Maria Patella, partecipano ad alcune delle manifestazioni organizzate all’insegna della Mec-Art, che complessivamente arriverà a coinvolgere più di una ventina di artisti italiani, che hanno fatto ricorso all’immagine fotografica nelle loro tele.

 

Limitarsi a considerare la versione italiana del movimento, concentrando l’attenzione sugli autori che con maggiore continuità e impegno vi si sono riconosciuti, non va considerato riduttivo, in quanto l’approfondimento – qui proposto – delle singole personalità e del loro apporto al tentativo di affermare un’estetica di gruppo, offre molteplici motivi di interesse per considerare, a oltre quarant’anni di distanza, le qualità e i limiti di quell’impresa, e per guardare più da vicino i percorsi compiuti dai singoli protagonisti di quel momento.

 
 

Per Mec-Art si deve intendere la realizzazione su tela o su altro supporto di opere eseguite con il ricorso a procedimenti meccanici, mediati da processi fotografici e tipografici - il principale dei quali è il “riporto” fotografico su tela sensibilizzata - rivolti a documentare (e implicitamente a interpretare) in vario modo i modelli di riferimento a livello visivo della comunicazione contemporanea. La definizione, nelle sfumature alle quali è stata soggetta dal momento in cui è apparsa a quello in cui è divenuta etichetta di alcune esposizioni di gruppo, pone da subito una duplice questione: da una parte quella dell’approccio tecnologico e dello stretto rapporto con il problema dei mezzi di realizzazione dell’immagine, e dall’altra quella del peso e del carattere del soggetto riportato, all’interno dell’evoluzione dei temi iconografici che contraddistinguono un’epoca. Nell'ambito di questi filoni di ricerca si potranno riconoscere non solo le inclinazioni dei singoli autori, ma anche le letture critiche che del fenomeno sono state fornite, e che si potranno considerare al centro di una ripresa della breve storia del movimento. Un altro aspetto che verrà variamente considerato e dibattuto dagli autori che adottano i procedimenti della mec-art e dai critici che li sostengono è quello della necessità o meno del ricorso alla “riproducibilità” quantitativa delle loro opere, che i mezzi a disposizione rendono possibile e che potrebbe essere intesa secondo una delle declinazioni possibili del concetto di arte “meccanica”, oltre che come istanza di “democraticità” di un'opera non più da considerarsi come pezzo unico. In realtà, nonostante alcune prese di posizione e alcuni tentativi in tal senso, gli artisti che partecipano a questo movimento non si rivolgono a tale forma di ripetizione dell'oggetto-immagine per principio, e privilegiano comunque l'esemplare originale alla sua ripetizione in tiratura molteplice, replicando semmai le possibilità d'uso della stessa immagine o dello spettro delle sue varianti.

 
 

Riflettendo a distanza di alcuni anni rispetto al momento in cui la mec-art si è espressa, nell'unico tentativo di un certo peso indirizzato a una lettura storica retrospettiva del fenomeno, Restany, che va riconosciuto come il critico che ha promosso la nascita di un gruppo con questa denominazionee ne ha coordinato l'azione, ne coglie le ragioni e i limiti in una lucida analisi critica, affermando che “l'ambizione della mec-art fu quella di assumere la modernità dell'immagine di un'epoca senza complessi di tipo pittorico o di tipo falsamente estetizzante. Cioè la mec-art introdusse la struttura moderna dell'immagine nel campo artistico creando un linguaggio di sintesi basato sulla struttura fotomeccanica del linguaggio visivo di massa”2. Altrettanto chiaramente, nella stessa occasione, egli avanza però interrogativi sulla concretezza delle possibilità di affermazione di tale corrente e sui motivi che ne hanno limitato la portata. Tra questi, Restany indica l'eccessiva preoccupazione di intervenire a livello metodologico e tecnologico, a discapito di una elaborazione teorica compiuta e riconosciuta, e l'individualismo che ne ha contraddistinto il genere di azione3.


Il punto centrale è quindi quello del confronto fra il linguaggio fotografico e le nuove forme di costruzione di immagini che non vogliono identificarsi con la fotografia, ma tradurla in fonte iconografica che viene traslata in un’altra dimensione, per il semplice fatto di essere trasferita in altra sostanza, su altro supporto. Il lavoro dell’artista si concentra sui processi di selezione e di composizione, ma le prospettive che questo apre non sono solo quelle della ripetizione dell’immagine.
 
Il tema che Restany affronta nella presentazione di quella mostra (Hommage à Nicephore Nièpce; Paris, Galerie J, autunno 1965) è quello del confronto con il carattere urbano e industriale della produzione contemporanea, che si tradurrebbe in primo luogo in una sintesi a livello dell’oggetto, come avviene nell’arte d’assemblaggio e nelle realizzazioni oggettuali proposte degli autori del Nouveau Réalisme e che qualificano, si potrebbe dire, le istanze neodadaiste; un altro argomento da lui individuato è quello di un’arte che vada in direzione di una “constatazione dell’oggetto sul piano della bidimensionalità classica”4. Ciò che caratterizzerebbe quindi il nuovo modo di operare sarebbe una risposta alla crisi della pittura, e in particolare della pittura da cavalletto, scaturita da un confronto con il linguaggio fotografico inteso come sollecitazione a lavorare comunque sul supporto bidimensionale, e ancor più specificamente sulla tela di immediata identificazione pittorica, attraverso il riferimento a principi e soggetti di derivazione fotografica.
 
Centrale diventa, per questo, considerare l’atteggiamento che spinge gli artisti degli anni Sessanta a recuperare immagini dai rotocalchi, dalla pubblicità nelle sue varie specie, dal flusso fotografico, cinematografico e televisivo, per cui il personaggio dello spettacolo, l’immagine estrapolata dalla cronaca, la scatola di detersivo, il profilo dell’ultimo modello di automobile, possono essere oggetto di registrazione, frammentazione, riproduzione in altro contesto, specificamente quello artistico, di un settore cioè del linguaggio della comunicazione che si vuole riservato originariamente a un pubblico specializzato, di intenditori o di persone che esercitano nei confronti di quelle stesse immagini un giudizio di natura culturale e critica. Il problema non è solo quello di valutare l’oggetto, il bene di consumo, nella sua valenza di merce, come continuazione dell’oggetto quotidiano elevato da sempre a immagine di proprietà oggettive e soggettive, nelle diverse forme di natura morta, ma di individuare il senso della consapevolezza della sua qualità particolare, come figura o “simulacro”, in grado di rappresentare una nuova condizione sociale, indifferenziata e unitaria, dove quell’oggetto ha perduto o va perdendo le sue connotazioni affettive o naturalistiche, per acquisire uno statuto differente, che è stato chiaramente registrato dalle riflessioni sulla forma sociale del comunicare mediata dalle cose, e dalle immagini ridotte o riportate a cose. Un problema, pertanto, di linguaggio e sociologico nello stesso tempo.
 
Il problema non era solo di natura strumentale, quindi, non riguardando tanto i caratteri di differenziazione sotto il profilo delle procedure operative da parte degli artisti europei che si affidano a tecniche “meccaniche”, fotografiche e tipografiche - di tipo prevalentemente artigianale, come si vedrà più avanti -, ma anche e propriamente di genere iconografico e sociologico, indicando un modo diverso di concepire quelle immagini non come risultato inevitabile di un paesaggio urbano chiaramente definito, ma come momento di un’evoluzione in atto. La loro azione, senza volere essere esclusivamente di “smascheramento” e di contestazione critica, si pone come una forma di intervento che usa quei motivi come soggetto dell’immagine, ma anche come strumento di produzione dell’immagine, interpretando lo “spirito del tempo” e cercando di cogliere i suoi fattori costitutivi immediati, di superficie che è nello stesso tempo specchio della sua sostanza. La Mec-Art e i procedimenti meccanici usati nell’ambito di un’arte che, pur non confluendo nell’alveo della pop art, coglie la particolarità della propria epoca in quel riflesso di immagini e di sollecitazioni che ne determinano il “gusto”5, agisce sulla “pellicola” della realtà, registrandola e facendola diventare il riflesso visivo di un determinato momento, cercando di indagarne la sostanza più profonda.
 

In questo senso la “constatazione”, che è uno dei principi posti al centro delle interpretazioni critiche di un’arte che si fonda immediatamente sulla registrazione di quel mondo iconico che costituisce la prima realtà del mondo della comunicazione sociale non è solo una forma di appiattimento e di duplicazione, ma è un segno di come l’artista, attraverso lo strumento della ripetizione – si potrebbe dire di una ripetizione “differente” – metta in moto una sottile disamina dei procedimenti comunicativi.

 

Per quanto riguarda un altro e coordinato principio che sta alla base dell’identificazione dei soggetti di un’arte che interpreta il fenomeno della comunicazione visiva secondo le sue ragioni non dichiarate, nell’elevazione a “mito” di figure rappresentative di una situazione sociale fortemente condizionata dai mezzi di comunicazione, risulta chiaro che tutto un versante della critica francese ed europea sia chiaramente influenzata in quegli anni dall’interpretazione che della tipologia dei “miti” contemporanei ha dato Roland Barthes attraverso la raccolta, apparsa nel 1957, di una serie di suoi articoli posti appunto sotto l’insegna dei “Miti d’oggi”. Nel testo di maggior respiro del volume, in cui Barthes indaga dal punto di vista semiologico e strutturale la natura del “mito”, come può essere inteso alla luce del moltiplicarsi e dell’equivalersi delle diverse forme di immagine e di realtà divenuta oggetto di comunicazione, la sua essenza va riconosciuta nel suo essere una forma di metalinguaggio, in quanto nel mito – e ciò può valere tanto nella sua accezione letteraria desunta dalla lezione del passato, quanto nella sua traduzione in forma di rappresentazione del reale contemporaneo – si verifica non la presentazione di un “significato”, ma di un “segno”, che crea una separazione fra “senso” e “forma”, per situarsi ad un livello di ambiguità6. Per la sua natura impermanente e aperta, il “mito” si presta a dare il volto a una contemporaneità che presto passa dallo stadio immediato, di realtà e notizia, informazione, a quello di mera immagine, comunicazione che si sovrappone al suo significato originario e ne svuota la motivazione storica e critica, potendo addomesticarne la funzione “politica”. Per Barthes “Il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione…”7

 

I due elementi critici emersi come prioritari, nel comprendere il meccanismo sul quale l’arte “meccanica” agisce, quello della semplice “constatazione” del reale trasferitosi nell’immagine mediatica, e quello della sua qualificazione di “mito”, si trovano così riuniti in una definizione che tiene conto di come gli strumenti della comunicazione producano non immagini rappresentative del reale, ma miti e icone, che vanno al di là della loro sostanza visibile, per quanto in questa sia già presente la loro realtà di “simulacri”.


 
 

LE MOSTRE E I PROTAGONISTI DELLA MEC-ART

IN ITALIA

 
 
Il problema della realizzazione di immagini derivate dal mezzo fotografico si manifesta in Italia inizialmente infatti in stretto rapporto con la questione di una “nuova figurazione” o della “nuova immagine”, all’interno della quale corrente si situano sia alcune posizioni derivate dalla crisi dei linguaggi di ascendenza informale, emersa fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, sia alcune elaborazioni che fondano la loro ragione nella proposizione di nuove modalità di raffigurazione del soggetto pittorico.

Il problema del più serrato confronto con l’immagine di derivazione fotografica però veniva posto, intorno alla metà degli anni Sessanta, in modo pertinente anche e proprio da alcuni giovani autori che creavano in vario modo una più diretta contaminazione fra fotografia e pittura. In questo senso le sperimentazioni di Aldo Tagliaferro, Elio Mariani, Bruno Di Bello, a Milano, o di Luca Maria Patella e Mario Schifano, a Roma, mostrano una immediata sintonia con quelle ricerche che Pierre Restany sosteneva nella capitale francese. Particolarmente i tre autori citati attivi in ambito milanese possono essere considerati, per la continuità del loro impegno in questo senso, come coloro che parallelamente e per vie autonome, rispetto alle individualità operanti nella capitale francese, trovano una via affine alla prima definizione della Mec-Art, per l’integrazione e la rielaborazione dell’immagine fotografica nello spazio della tela, effettuando una personale revisione del linguaggio artistico, in consonanza con l’urgenza di un rinnovamento dell’arte di contenuto sociale.

Rispetto alla mostra nella Galleria Blu dell’ottobre 1966 (Pittura meccanica, con opere di Béguier, Bertini, Jacquet, Nikos e Rotella), che proseguiva sostanzialmente la presentazione parigina della Mec-Art, le manifestazioni che si succedono nel corso del 1968 in Italia, a partire proprio dall’inizio di maggio del ’68, vedono prevalere una declinazione italiana del “movimento”, con la presenza, oltre a Bertini e Rotella, già affiancati agli altri operanti nella capitale francese, dei tre artisti sopra considerati, Di Bello, Mariani e Tagliaferro, e di altri autori italiani, Giorgio Albertini, Anna Maria Comba e Luca Maria Patella, che in vario modo stanno lavorando con l’immagine fotografica, per ottenere effetti di combinazione, assemblaggio e deformazione dell’immagine d’origine. Oltre a loro, il panorama della tendenza viene completato da lavori di Neiman e dello svedese Ture Sjolander, oltre a quelli di Béguier, Jacquet e Nikos, già protagonisti delle mostre del 1966. L’allargamento, soprattutto in area italiana, è giustificato non solo dal tentativo di collegare esperienze affini che vanno nascendo in ambienti diversi, ma soprattutto dal coinvolgimento di altri critici, in particolare di Pierluigi Albertoni, che si fa interprete delle posizioni esposte da Pierre Restany nei suoi scritti degli anni precedenti attorno allo stesso problema.

Più specificamente, nel suo intervento all’interno del numero monografico dedicato alla “pittura meccanica”, Albertoni pone l’accento sul principio della produzione “in serie” dell’opera, che distingue da altre tecnicheper ottenere “multipli”, nella specifica adozione di procedimenti meccanici8, e che valuta in stretto rapporto con la crescita d’interesse per il cinema d’artista.


Nell’arco di qualche tempo, pochi mesi in realtà, tale delicato equilibrio andrà risolvendosi con un più immediato orientamento verso un’accentuazione delle riflessioni sul ruolo dell’artista nel frangente sociale e sulle sperimentazioni linguistiche rese possibili dal ricorso ai materiali fotografici. Inevitabilmente, il processo fotomeccanico di elaborazione di immagini che conservano una traccia immediata del contesto visivo dal quale sono scaturite, porta a valutare il carattere di una registrazione di secondo grado che il ricorso a immagini fotografiche riportate su tela propone. Se ne può desumere che l’artista eserciti una critica al sistema che riguarda, più che la sostanza delle situazioni visive che vi compaiono, la possibilità di deviare le immagini dal loro significato documentativo, straniandole, e nello stesso tempo, di proporre un modello produttivo che risenta della serializzazione dell’immagine nella dinamica dei mezzi di comunicazione di massa.

Verso una riflessione sul mezzo fotografico e sul valore mentale delle operazioni concernenti le immagini si dirigono una parte delle operazioni proposte dai protagonisti della Mec-Art, e parallelamente le considerazioni critiche attorno ai problemi da loro avanzati. Il maggior contributo critico in questo senso è quello di Daniela Palazzoli, che si esplica attraverso una serie di interventi pubblicati su riviste e la presentazione di numerose mostre individuali e di gruppo, dirette a interpretare questo aspetto delle ricerche sull’arte “meccanica” in Italia.



 

1 Per quanto resti aperto il problema della paternità della formula e ancor più quello della sua corretta interpretazione, come si dirà in seguito.

2 Pierre Restany in Mec-Art, Galleria d'arte moderna Il Dialogo, Milano 1979, s.p. (da una registrazione di Restany effettuata a Milano il 14 ottobre 1978).

3 “... Avevamo la possibilità di creare le condizioni di un'azione collettiva dinamica? Avevamo questa possibilità? Non ne sono sicuro, perché ancora una volta credo che questa mec-art storica europea si fosse basata su una ricerca di metodi e di mezzi e non su, diciamo, una filosofia generale del pensiero. I protagonisti storici aderirono alla mec-art conservando tutte le loro individualità...”. E ancora, più avanti: “Perché allora l'estensione e la diffusione della mec-art è stata limitata? É stato forse perché i protagonisti della mec-art sono rimasti molto individualisti e non hanno cercato di assumere la disciplina di emulazione di massa. Però la cosa importante è stata la loro intuizione ottimistica, generosa e anche positiva sul destino nuovo dell'immagine foto-meccanica...”, ibidem.

“Les recherches se poursuivent sur deux voies parallèles (...) selon que la tentative de synthèse se situe au niveau de l’objet en soi ou du constat de cet objet sur le plan de la bidimensionalité classique... ", P. Restany, Hommage à Nicephore Niepce, catalogo della mostra, Galerie J, Paris, ottobre 1965. Lo stesso testo è usato per la successiva mostra, con lo stesso titolo, a Bruxelles e, in forma ridotta, per il manifesto Pittura meccanica, pubblicato in occasione della mostra presso la Galleria Blu nell’ottobre 1966.

5 Osserva Gillo Dorfles, in un suo intervento pubblicato nel 1966, sul tema dell’evoluzione del “gusto” alla luce dell’influenza esercitata dalla cultura dell’immagine popolare sulle più recenti forme estetiche, che “Anche la trasformazione del gusto si dovrà quindi considerare come un adattarsi delle opere d’un determinato periodo a quel processo formativo che guida e domina l’epoca in esame e che dipenderà in notevole misura dalla struttura sociale dell’epoca stessa…”, G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Lerici, Milano, 1966, p. 97.

6 “Nel mito si ritrova appunto lo schema tridimensionale: il significante, il significato e il segno. Ma il mito è un sistema particolare in quanto si edifica sulla base di una catena semiologia preesistente: il mito è un sistema semiologico secondo. Ciò che è segno (cioè totale associativo di un concetto e di un’immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante…”, R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994 (prima edizione 1974, ed. orig. 1957), p. 196.

7 Ivi, p. 223.

8 Per Albertoni “l’opera di serie è soltanto e unicamente quell’opera ottenibile meccanicamente ed è quella studiata, voluta, concepita per la ripetizione in più copie…”, P. Albertoni, L’arte meccanica e la sopravvivenza dell’immagine, “Essere”, quaderno di studi e di documenti d’arte contemporanea, a cura di P. Albertoni, n. 4 (Pittura meccanica per una nuova iconografia), Milano, 1968, p. 33.