Antologia critica |
Manifesto Contro lo stile, Milano settembre 1957
Nel febbraio 1952 il primo manifesto nucleare affermava la nostra volontà di voler combattere ogni concessione a qualunque sorta di accademismo. Così si esprimeva la nostra rivolta contro il dominio dell'angolo retto, dell'ingranaggio, della macchina, contro l'astrazione fredda e geometrica. Da allora abbiamo proseguito nella sperimentazione di ogni possibile risorsa tecnica, dall'automatismo «tachiste» o oggettivo a quello soggettivo, al grafismo, alla «action painting», al gesto, al calligrafismo, alle emulsioni, frottages, polimaterismo, sino alle acque pesanti di Baj e Bertini (1957). Alle sperimentazioni tecniche si accompagnarono, per vicendevoli suggestioni, nuovi linguaggi: dagli spazi immaginari (cfr. Pierre Restany), e «stati della materia» del 1951 (Baj e Dangelo), alle «prefigurazioni» del 1953 (Baj, Dangelo, Colombo e Mariani) alle «Nuove flore» (Dangelo) e «personaggi, animali e favole» (Baj e Jorn) del 1956, sino alle «situazioni atomizzate» del 1957 (Baj e Pomodoro). Ma ogni invenzione rischia ora di divenire oggetto di ripetizioni stereotipe a puro carattere mercantile: è quindi urgente intraprendere una vigorosa azione anti-stilistica per un'arte che sia sempre «autre» (cfr. Michel Tapiè). «De Stijl» è morto e sepolto ed è al suo contrario l'antistile – che spetta ora di abbattere le ultime barriere della convenzione e del luogo comune, le ultime che la stupidità ufficiale possa ancora opporre alla definitiva liberazione dell'arte. Già l'impressionismo liberò la pittura dai soggetti convenzionali; cubismo e futurismo a loro volta tolsero l'imperativo dell'imitazione oggettiva e venne poi l'astrazione per dissipare ogni residua ombra di illusoria necessità di rappresentazione. L'ultimo anello di questa catena sta per essere oggi distrutto: noi nucleari denunciamo oggi l'ultima delle convenzioni – lo stile. Noi ammettiamo come ultime possibili forme di stilizzazione le «proposizioni monocrome» di Yves Klein (1956-1957): dopo di ciò non resta che la «tabula rasa» o i rotoli di tappezzeria di Capogrossi. Tappezzieri o pittori: bisogna scegliere. Pittori di una visione sempre nuova e irripetibile, per i quali la tela è ogni volta la scena mutevole di una imprevedibile “commedia dell'arte”. Noi affermiamo l'irripetibilità dell'opera d'arte: e che l'essenza della stessa si ponga come «presenza modificante» in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze.
Firmatari: Arman, Enrico Baj, Bemporad, Gianni Bertini, Jacques Colonne, Stanley Chapmans, Mario Colucci, Dangelo, Enrico De Miceli, Reinhout D'Haese, Wout Hoeboer, Hundertwasser, Yves Klein, Theodore Koenig, Piero Manzoni, Nando, Joseph Noiret, Arnaldo Pomodoro, Giò Pomodoro, Pierre Restany, Saura, Ettore Sordini, Serge Vandercam, Angelo Verga.
_____________________________________________________________________________________
I quadri di Bertini pongono con acutezza il problema della narrazione non-figurativa. Manifestamente, essi presentano un soggetto lirico, senza essere pertanto riducibili ai concetti tradizionali d'associazione. Essi non appaiono neppure come i prodotti d'un paranoicismo critico, essendo esenti dal cerebralismo delle atmosfere subcoscienti. Queste opere colpiscono lo spettatore per una sorte di lirismo che ha impregnato la loro essenza nella stessa misura. Tutto avviene come se fossimo in presenza di fenomeni rituali, ripetuti quotidianamente in qualche posto, altrove, in un altro mondo eppure vicino. In mancanza di equivalenti più esatti, i quadri di Bertini possono evocare delle profondissime immersioni sottomarine oppure il brusco passaggio, nel cannocchiale d'un osservatore celeste, di nebulose in formazione, lo scoppio infine di minacciose macchie solari o di funghi atomici. Lo spazio di Bertini è narrativo: risponde alle esigenze d'una messa in scena dell'illimitato e d'un lirismo epico superiormente lucido. Le “prospettive” bertiniane s'oppongono alla stretta bidimensionalità d'un Hartung. Esse testimoniano un senso specifico dello spazio congiunto ad una concezione particolare del cromatismo. L'organizzazione interna del quadro è rivolta all'espandersi del colore dominante: tutti gli elementi concorrono a questo fine, e la qualità di questa espansione determina la densità spaziale e l'intensità lirica dell'opera. Questo matematico pisano, nutrito alle sorgenti della cultura umanistica e della Rinascenza fiorentina, è il Piero di Cosimo della pittura astratta. Pierre Restany in “Lyrisme et abstraction” edizioni Apollinaire, Milano 1960
_____________________________________________________________________________________
Intervista di Luisa Castellini Incontrare Gianni Bertini significa respirare, nelle sue parole, gli anni che hanno segnato la nostra cultura. Bertini ha vissuto sulla pelle la seduzione delle Sirene dei grandi movimenti del dopoguerra, ma non si è lasciato incantare dal loro canto. Ha guardato oltre e, andando contro corrente, ha tessuto le trame dell'arte del domani. A fine anni '40 lancia i Gridi, opere con cifre e lettere stampigliate, anticipando la Pop Art. Partecipa al MAC nel '51, firma la prima mostra informale italiana. Ma quando questo dilaga, parte alla volta della Ville Lumière. Conosce Drouin e Restany, espone in Europa e negli Usa. Si avvicina al Nouveau Réalisme, viaggia in Africa e in America Latina. Rientrato in Italia firma il Manifesto della Mec-art nel '65. Negli anni '70 fonda le riviste di Poesia Visiva “Mec” e “Lotta Poetica” e lancia con l'amico Alex Mlynarcik l'Arte Anticoncezionale, mentre è del '97 il manifesto della Retroguardia. Bertini, nella sua casa di Nansola, continua a lavorare, instancabilmente. Si definisce un artista del secolo scorso e sorride ricordando chi gli diceva “questi non sono quadri”... Quale era il clima artistico del dopoguerra? Al di là delle prime esperienze cubo-futuriste, gli artisti della mia generazione sono quasi tutti passati attraverso il geometrico, celebrato dall'esposizione romana del '51, “Arte astratta e arte concreta”. A quella data mi ero già allontanato da quella che, a tutti gli effetti, consideravo un'accademia. La prima mostra informale in Italia fu mia: era il '51 ed esposi alla storica galleria fiorentina Numero prima di partire alla volta di Parigi. Pochi mesi dopo ci fu un'esposizione di Dova a Milano che influenzò, molto più di me, il nascente movimento Nucleare. Quali sono i ricordi legati alle prime mostre? All'inizio esponevo in collettive: la gente e gli amici stessi non capivano le mie opere e spesso ne ridevano, perché in quel momento, a livello storico e culturale, non erano considerate quadri. In un certo senso avevano anche ragione, esse però contenevano già i segni di una realtà in completa trasformazione, tanto che 10 anni dopo si è parlato di Pop Art. Con la sua opera ha attraversato – e in molti casi anticipato – gli umori dei movimenti più importanti del dopoguerra, a partire dai Gridi Quei quadri con le lettere stampigliate mi consentivano di esprimere concetti e significati diversi. Volevo uscire da un certo naturalismo: “Alt”, ad esempio, significava “basta” alla guerra. Erano lontani da qualunque schema pittorico di quel tempo e se la critica oggi li guarda in modo diverso e li ha accettati, è perché il corso della pittura è mutato. Tanti esperimenti avvenuti nel tempo li hanno resi oggi leggibili. È in questo evolvere del pensiero che i Gridi sono stati un'anticipazione. Nonostante l'amicizia con Restany e l'esposizione di alcune opere coi protagonisti del Nouveau Réalisme, non ne firmò il manifesto, perché? Quando nacque il Nouveau Réalisme lavoravo già da anni con Restany. All'inizio ho esposto in alcune mostre con loro, ma ero un artista troppo identificabile con il mio passato. A differenza degli altri componenti avevo vissuto l'informale fino in fondo. Del resto, tutto il mio lavoro fino ad allora, era stato esaltato dalla critica proprio in funzione di quell'esperienza vissuta dentro l'informale. Qual è il suo rapporto con la storia? Ho sempre cercato di rappresentare l'attualità, non solo usando i quotidiani e la fotografia, ma ascoltando gli umori della vita. Quando iniziò la moda della minigonna ne feci subito un quadro. Quando ci fu la guerra del Golfo, cui ero contrario, non potei evitare d'affrontarla. Rimasi colpito dalle immagini degli elicotteri, che fino a quel momento avevo pensato come macchine costruite per salvare vite. D'improvviso mi apparvero per ciò che erano: macchine da guerra, ancora più efficaci dei bombardieri perché in grado di avvicinarsi al suolo in un attimo, fulminee nel lasciare profondi segni di distruzione e di morte. Come nacque l'interesse per la fotografia che, nel '65, la porterà a firmare il manifesto della Mec-art? In maniera del tutto materiale. In realtà la felicità di un pittore è quando esistono delle barriere. Per questo, al diffondersi del geometrico reagii subito. Per lo stesso motivo, al dilagare dell'informale, nacque in me il desiderio di fare cose diverse. Le prime opere di riporto fotografico sono del '62. Nacquero in un clima difficile, perché fui avversato da chi mi aveva stimato e aiutato durante la mia esperienza informale. A guardare bene, le opere più recenti, sono forse solo un più colorate. Cosa ne pensa delle tendenze artistiche di oggi? Viviamo nella società dell'immagine televisiva, della provocazione e dello scandalo. Io non sono più un artista d'avanguardia. Sono un pittore del secolo scorso e questo mi fa piacere... Non ho una conoscenza approfondita delle esperienze dei giovani ma ho l'impressione che chi emerge è bravo soprattutto a catturare l'attenzione, trovare uno sponsor e fare buoni contratti... |