Intervista con Mario Perazzi in “Corriere d'Informazione” 24 gennaio 1979
La Madonna che allatta in panni raffaelleschi ha il volto di Barbara Bouchet, su uno sfondo umbro quattrocentesco sparano le P38, mentre un Gesù bambino nudo scappa, fra gli archi rinascimentali le raffiche della mitraglia, fra le colline coperte di abeti e di ulivi di una Toscana del Cinquecento muore il khmer rosso, fra gli archi e gli altari della cattedrale i parà celebrano un rito di morte. Sono grandi tele emulsionate, realizzate con riporti fotografici sui quali si è intervenuti con colori acrilici assurdamente realistici. [...] Prima di esporre questi quadri, frutto del lavoro degli ultimi tre anni, Bertini li ha mostrati ad una serie di operatori culturali: i critici Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Daniela Palazzoli, Pierre Restany, Tommaso Trini, il mercante critico Luciano Inga Pin, l'editore d'arte Giampaolo Prearo, il pittore e scrittore Emilio Tadini, il poeta e critico Roberto Sanesi. Le loro reazioni vanno dall'indifferenza allo stupore, alla perplessità, al rigetto, all'interesse, al plauso.
Ma Bertini come motiva un'operazione così controcorrente, che lo espone ad ogni possibile critica e accusa? «Risponderò quasi con una parafrasi. Quando si sente parlare dei giovani, e non solo dei giovani pittori, che mai come oggi si reputano impegnati, ricorre sempre la parola abbastanza. Quel film è abbastanza bello, quel cantante è abbastanza bravo, quel quadro è abbastanza interessante... Questo abbastanza secondo me, è un termine totalmente disimpegnante, quasi una sorta di qualunquismo, nel senso che la mancanza di idee non ti fa prendere una posizione. Così, quando io sono partito per fare questi quadri, ho rifiutato del tutto la parola abbastanza, ho rifiutato in toto le esperienze che si fanno adesso. Non so se ho ragione, quello che so è che mi sento totalmente al di fuori dei canoni della cultura in atto».
Perché questo rifiuto della cultura attuale? «Non dico che va rifiutata, che lei o qualsiasi altro operatore culturale debba rifiutarla; dico che io Bertini, se voglio assumere una posizione totale di rinnovamento, devo dire che quello che si fa oggi non mi interessa. Quando vedo un artista impegnato che fa dei quadri con delle righe di grigio chiaro e delle righe di grigio scuro, quando mi trovo di fronte ad una serie di puntini sul muro, non che chi li fa non abbia le sue buone ragioni per farlo, dico che sono cose che non mi interessano più. Dicono che non si può continuare a fare l'operazione del togliere: da vent'anni a questa parte l'avanguardia è consistita solo nel fare un po' meno del precedente. Ora io dico che ormai l'azzeramento è avvenuto. Oggi è veramente antiquariato dell'avanguardia obbligare qualcuno a riflettere sull'essenzialità di un puntino sulla parete».
E i suoi quadri invece come nascono? «Come immagine nascono dall'impossibilità di prendere sul serio un artista oggi. Non mi posso confrontare con nessuno, mi rifiuto di farlo. Ecco, quindi, che mi sono voltato molto indietro e ho riguardato gli antichi. L'idea era di ritrovare un equilibrio semplice. I primi quadri che ho fatto raffigurano il padre, la madre e il bambino. Mi sono detto: se voglio veramente ripartire su una base, devo ripartire dal nucleo sociale più semplice. In catalogo c'è una mia frase, un concetto nudo prende freddo e muore: potrebbe essere la ragione poetica di questi quadri. Facendoli ho cercato di tener conto che è esistita un'area abbastanza spessa di concettualismo, ma poi mi sono accorto che non mi ricordavo che cosa mi hanno detto i concettuali. Non me lo ricordavo, perché non me lo hanno saputo visualizzare».
D'accordo, questo per quanto riguarda le sue opere come immagine, ma mi par di capire che per lei abbiano anche un contenuto sociale... «Sì, in tutti i quadri c'è un paesaggio come sfondo. Io non avevo mai dipinto un paesaggio, non mi interessava, ma in questi quadri c'è come contrappunto. Voglio dire: non è vero che tutti sparano. Ci sono quelli in primo piano, quelli della cronaca; ma là dietro, sullo sfondo tutti quelli che abitano in quelle case, che lavorano, che operano in silenzio anonimamente, quelli sono la parte sana della nostra società. Mi hanno detto che la mostra è pessimistica, ma io non sono pessimista: rappresento la società com'è».
Non ha paura di essere accusato di passatismo o di kitsch? «Dorfles mi ha detto che sono i quadri più brutti che abbia mai visto. Se avessi avuto paura non avrei pubblicato le sue risposte. Inga Pin mi ha detto che non lo riguardano, Trini non mi ha detto niente. Io posso capire che mi diano del kitsch, e, in un certo senso, li ringrazio. Ma del passatista no, non lo accetto, perché faccio un'operazione cosciente. Se mi dicono invece che faccio un'operazione di revisione, rispondo che può anche essere vero e che la cosa non mi disturba. So che faccio una proposta: non affermo di aver ragione, ma so che gli altri hanno torto».
Quando le chiedono che mestiere fa, cosa risponde? «Che faccio il pittore: sono uno che ha le carte in regola per farlo. L'ho sempre fatto; e fatto bene».
|